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Le parole che dici creano la tua realtà

Ascoltare le persone, quello che dicono è una vera avventura, sia che lo si faccia professionalmente come quando sono nel mio studio durante una sessione di counseling, sia che lo si faccia per puro, semplice, spontaneo interesse per gli altri.

Significa vedere dispiegare davanti a sé il pensiero e le costruzioni mentali delle persone, un meraviglioso dono per chi lo sa cogliere.

Spesso parliamo in fretta come se dovessimo correre dietro ai pensieri che rischiano di scappare via, oppure esitiamo con lunghe pause come se i pensieri faticassero ad uscire dal recinto della mente, e poi finalmente impariamo a dosare le pause e le parole con attenzione, come bravi artigiani del pensiero espresso.

E le parole quando prendono vita nell’espressione orale a cavallo del respiro della persona, diventano potenti, aprono scenari, dipingono quadri emotivi, suonano armonie sentimentali, e creano la realtà.

Le parole dette risuonano al nostro orecchio e possono arricchirlo o ferirlo, comunque hanno sempre un effetto fisico e mentale se siamo pronti ad ascoltarle veramente. Questa società in questo momento storico è perlopiù sovraccaricata da parole disattente, espresse con malagrazia, rabbia, paura, insicurezza, manipolatorie, sembra che si siano perdute le parole delicate, auliche, antiche, giovani, espresse con attenzione e amore e soprattutto cura. Ecco cura del parlato affinché diventi un bel parlato e quindi una bel risuonare armonico e costruttivo.

Durante la giornata quanto e come parliamo? Ce lo siamo mai chiesto? Da ora in poi facciamo attenzione a quelle che diciamo e a quelle che pensiamo, il nostro dialogo interiore per così dire dà forma alla giornata, alla nostra energia e alle nostre azioni.

E le parole scritte? Lascio a voi l’interpretazione energetica e vibratoria in voi di quelle che state leggendo!

Fabiana Boccola

Un maestro di Judo in aula e la Leadership mette il Kimono

Entriamo in aula…
una formatrice e un maestro di judo…
pronti ad accompagnare persone che lavorano in una grande azienda pubblica a credere in se stesse.

Il percorso intensivo è sull’apprendimento del proprio stile di leadership naturale per ingaggiare efficacemente il proprio team e gestire costruttivamente potenziali conflitti e  incomprensioni. L’obiettivo è ambizioso e appunto per questo siamo in due, ma in effetti non siamo in due, in quanto la sintonia e la sincronia dei nostri interventi ci guidano  nel mostrare come le arti marziali possano attivare rapidamente ed efficacemente una profonda consapevolezza delle dinamiche mentali ed emotive che agiscono nella relazione conflittuale.

Judo significa la “Via della Cedevolezza” perché insegna che il modo migliore per contrastare una forza non è quello di opporvisi, ma quello di cedere per utilizzarla a proprio  vantaggio. Il proprio vantaggio è un concetto che va declinato ricordando 8 principi elaborati dal fondatore, il Maestro Jigoro Kano, nel 1882:

1. Educazione 2. Coraggio 3. Sincerità 4. Onore 5. Modestia 6. Rispetto 7. Controllo di sé 8. Amicizia.

Ecco qua gli ingredienti della leadership naturale e cominciamo subito a proporre alcuni esercizi per trovare la flessibilità del corpo e quindi, in un’ottica sistemica, della mente. Poi il maestro di judo propone a coppie un esercizio di stallo (uno contro l’altro spingendo con le mani a contatto) e insegna l’arte della cedevolezza: “smetto di spingere, cedo, e così facendo esco dallo stallo e lascio che l’altro perdendo il contatto perda l’equilibrio”… solo così potremo trovare insieme un nuovo equilibrio, o per usare i termini della formazione, scopriremo insieme la Soluzione a ciò che ci oppone, fluendo come l’acqua, senza resistenza ma insieme in onda, come un salvagente che galleggia insieme ale onde del mare.

Ed ecco la magia, in pausa due dirigenti provano davanti alla famosa macchinetta del caffè l’esercizio e nei loro sguardi c’è intensità, coraggio e voglia di cambiare, veramente questa volta!

Fabiana Boccola

Empatia e “Neuroni Specchio”: le Basi dell’Apprendimento Emotivo

“Provare empatia, mostrare un atteggiamento empatico, devi essere empatico…”: quante volte i formatori hanno sentito consigli o sollecitazioni in tal senso?

Nel decalogo delle caratteristiche di un formatore questa capacità ritengo sia posizionata molto in alto. Ho voluto allora ripercorrere la storia di questa concetto/capacità, ed
ecco cosa ho trovato. Innanzitutto alcune definizioni di empatia (em-in; pathos – sentimento) che mi hanno molto colpito:

per Karl Jaspers

“quando nella nostra comprensione i contenuti dei pensieri appaiono derivare con evidenza gli uni dagli altri, secondo le regole della logica, allora comprendiamo queste relazioni razionalmente; quando invece comprendiamo i contenuti delle idee come scaturiti da stati d’animo, desideri e timori di chi pensa, allora comprendiamo veramente in modo psicologico o empatico”;

per George H. Mead

“l’empatia richiede un assetto ricettivo che consenta di entrare nel ruolo dell’altro, per valutare il significato che la situazione che evoca l’emozione riveste per l’altra persona, nonché l’esatta interpretazione verbale e non verbale di ciò che in essa si esprime”;

per Carl Rogers, nel rapporto terapeutico

“la comprensione non avviene a livello “gnosico”, ma “patico”, dove determinate emozioni che non appartengono ai propri vissuti possono essere valutate per estensione delle proprie esperienze”;

per Maurizio Stupiggia

“l’empatia è l’accesso al flusso vitale ed esperienziale delle altre persone, è un costante lavoro di ricerca e adattamento delle proprie esperienze al materiale che l’altro ci offre”.

Anche la neurofisiologia, poi, ci viene in aiuto per dare una base scientifica al concetto di risonanza emotiva, tramite una grande scoperta fatta da un team di ricercatori
italiani (Fogassi, Rizzolatti e Gallese): i neuroni specchio. Si tratta di neuroni specifici localizzati nel cervello che si attivano sia quando si compie un’azione, sia quando la si osserva mentre è compiuta da altri: i neuroni cioè dell’osservatore rispecchiano il comportamento dell’osservato, come se stesse compiendo l’azione lui stesso (vedere non è, quindi, solo registrare passivamente comportamenti, ma già da subito simularli a livello pre-conscio).

I ricercatori hanno ipotizzato che la vista del viso altrui che esprime un’emozione attiva nell’osservatore gli stessi centri cerebrali che si attivano quando è lui stesso ad avere quella specifica reazione emotiva e hanno cercato di verificarne la validità. Quindi il meccanismo dei neuroni specchio incarna sul piano neurale quella modalità del comprendere che, prima di ogni mediazione concettuale e linguistica, dà forma alla nostra esperienza degli altri.

Ma il teatro lo sapeva da tempo: infatti secondo Peter Brook (regista e drammaturgo britannico) con la scoperta dei neuroni specchio le neuroscienze hanno cominciato a capire quello il teatro sapeva da sempre. Infatti il lavoro dell’attore sarebbe vano se egli non potesse condividere, al di là di ogni barriera linguistica o culturale, i suoni e i
movimenti del proprio corpo con gli spettatori, rendendoli parte di un evento che loro stessi debbono contribuire a creare. Su questa immediata condivisione il teatro avrebbe costruito la propria realtà e la propria giustificazione, ed è a essa che i neuroni specchio, con la loro capacità di attivarsi sia quando si compie un’azione in prima
persona sia quando la si osserva compiere dagli altri, verrebbero a dare base biologica.

Collegando questi concetti alla formazione possiamo quindi “scientificamente”  risuonare insieme all’altro, cogliendo, empaticamente, l’essenza dell’esperienza emotiva vissuta dalle persone in apprendimento, inscindibile dall’esperienza logico-razionale.

Fabiana Boccola

Emozioni di Moda

Cosa sono le emozioni? Se ne parla, se ne scrive, si sentono, ma non si sa più come gestirle, come scoprirne la bellezza e goderne l’intensità. Quando chiediamo ad una persona  “come stai?” ci sentiamo spesso rispondere in modo affrettato e superficiale “bene” mentre ci accorgiamo che tutto il corpo e la voce stessa vibrano suonando un accordo diverso da quel laconico “bene”.

Cosa succede? Non vogliamo esporci, non vogliamo raccontare cosa avviene dentro di noi, non vogliamo ascoltarci, tutto questo e forse altro. Il risultato è spesso la creazione di un’abitudine a non riconoscere più cosa sentiamo, creando dei blocchi che il nostro corpo mostrerà, perdendo la sua capacità di movimento libero, di espressività e creatività. In questo momento socio-culturale le emozioni più in voga sono la paura e la rabbia, anche se è difficile ammetterlo, mentre l’amore e la felicità sono diventate utopiche, lontane, irraggiungibili, ma dentro di noi premono e cercano espressione.

Allora cominciamo ad affrontare con coraggio la paura e la rabbia che ci chiedono di cambiare qualcosa nella nostra vita e andiamo fiduciosi verso l’amore, la gioia, la passione, hanno tutte diritto di cittadinanza e pensare di escluderne qualcuna significa condannarsi ad una vita a metà. Il nostro cervello è un potentissimo computer composto da due fenomenali hard disk strettamente interconnessi: l’emisfero sinistro e l’emisfero destro, l’uno dedicato al pensiero logico-razionale e l’altro dedicato alle emozioni, alla creatività, al pensiero analogico e simbolico. Insieme rendono l’essere umano una splendida creatura, in grado di assaporare la vita nel qui e ora, di sentire e intuire ciò che veramente è utile e buono per se stessi e per gli altri, il corpo e il pensiero diventano flessibili, creativi, in movimento, in grado di affrontare il cambiamento e di renderlo evolutivo.

Il corpo non mente e le emozioni abitano nel corpo, ascoltiamole, pensiamole, gestiamole e facciamole diventare di moda.

Fabiana Boccola

Al servizio dell’altro, Nuove competenze di Leadership

Vorrei iniziare questo articolo con le parole di Jerome Liss, uno dei fondatori della Società Italiana di Biosistemica:

Quando le persone ricevono aiuto, sanno di essere amate. Quando le persone danno aiuto, sanno di amare, e questo basta a rendere la vita degna di essere vissuta.

Ho ripensato a questa frase al termine di una sessione di formazione interaziendale rivolta a Team Manager, durante la quale ho potuto sperimentare quanto “l’isolamento emotivo” possa creare pensieri e sentimenti di inadeguatezza in chi ricopre il ruolo di guida per altre persone. Senza confronto, scambio, richiesta di comprensione e ascolto profondo si rischia di non elaborare i vissuti emotivi e quindi di creare pensieri di chiusura e difesa verso l’altro che diventa il “diverso”, quello che “si esclude”, il cosiddetto “caso problematico” da gestire.
Di seguito riporto alcune riflessioni tratte da un testo di Jerome Liss che possono guidarci nella comprensione di ciò che accade e sostenerci nel trovare soluzioni concrete nella nostra vita professionale e privata:

l’isolamento crea nella nostra mente dei circoli viziosi (quando non riusciamo ad esprimere a parole quello che proviamo, spostiamo a livello cognitivo ciò che dovrebbe essere sentito ed analizzato a livello corporeo/emotivo e così per difenderci “razionalizziamo” e “giudichiamo” l’altro o gli eventi come soli responsabili del nostro malessere); la condivisione di paure, timori, sensazioni con altre persone ridimensiona il problema e aiuta a trovare una linea d’azione (semplicemente “raccontando” cosa si prova rispetto ad una persona o situazione, liberiamo energia, il racconto stesso diventa “cura di sé”); attenzione agli “accumuli energetici” dovuti alla repressione emotiva (ricordiamoci della relazione fra blocchi energetici e malattia); il disordine nella nostra vita esterna ci impedisce di affrontare il disordine del nostro mondo interiore – bisogna calmare o liberare l’agitazione dei nostri pensieri (molto importante, in quanto i nostri pensieri, come la fisica quantistica ha dimostrato, hanno il potere di influire sulla realtà); attenzione alla nostra mente critica o coscienza giudicante (si trova al confine tra mente cosciente e subconscio ed è pronta a giudicare sempre quello che stiamo pensando o cercando di fare, impedendoci di ascoltare la nostra intuizione profonda).

In base a queste osservazioni l’autore propone come metodo per superare impasse emotive, la realizzazione di sessioni di Collaborazione Reciproca, della durata complessiva di un’ora, in cui due persone si raccontano una all’altra, assumendo alternativamente il ruolo di Ascoltatore e Protagonista (mezz’ora per ognuno). L’autore le suggerisce all’interno di un contesto di Co-Counseling (Counseling Reciproco), che può essere rivisitato in chiave aziendale e gestito da Manager che coordinano persone e debbano essere in grado di facilitare la “relazione” fra le stesse in un’ottica di bene-essere. In azienda il Manager potrebbe utilizzare l’intera ora per lavorare con il collaboratore che porta il “problema”, senza scambio effettivo dei ruoli come previsto nella Collaborazione Reciproca (l’Ascoltatore comunque lavora su se stesso attraverso lo scambio con l’altro). Obiettivo di queste sessioni è quello di creare uno spazio-tempo di racconto e ascolto, al di là del giudizio e del consiglio, per aprirsi all’altro e alla ricerca di nuove e funzionali soluzioni del “problema” (l’approccio utilizzato è ti tipo fenomenologico). Chiave di volta dell’incontro è rappresentato dall’uso da parte dell’Ascoltatore di domande volte ad esplorare l’esperienza vissuta, via maestra per la ricerca di nuove soluzioni. La sessione di Collaborazione reciproca può iniziare con alcuni minuti di silenzio e respirazione profonda mirata a ritrovare la calma e il “qui e ora” della mente e del corpo (esistono tecniche legate alla mindfulness) per poi passare, da parte del Protagonista, all’esplicitazione di eventi, riflessioni ed emozioni relative al problema percepito. L’Ascoltatore potrà utilizzare alcune tecniche biosistemiche quali: la ricerca della concretezza, chiedendo al Protagonista di portare esempi specifici (è importante che si lascino da parte affermazioni generiche e stereotipate); l’attenzione alle parole–chiave, cioè a quelle
parole che portano con sé profondi vissuti emotivi legati agli schemi cognitivi e comportamentali utilizzati fino a quel momento dal soggetto e che non sono più funzionali alla ricerca di efficaci soluzioni); l’accompagnamento empatico alla scoperta di nuove soluzioni di gestione della relazione “problematica” e la sperimentazione delle stesse tramite drammatizzazioni e giochi di ruolo.
Questo magico processo potrà veramente creare vitalità e benessere cognitivo ed emotivo e solo… in un’ora!

Fabiana Boccola